Cultura, industria 4.0 e manifattura intelligente dell'Italian Soul (seconda parte)
18 aprile 2017
(Nella prima parte sono stati presentati i legami imprescindibili tra
cultura e qualità percepita dal consumatore. In questa seconda parte il
focus si concentra su altri fattori di competitività, comunque espressivi
della Cultura e del Territorio. NdR)
Una seconda considerazione può essere dedicata ai legami tra la Cultura e il Territorio. In questa epoca di economia globalizzata,
si assiste – quasi paradossalmente – ad una riscoperta della dimensione
locale dell’azienda. Un forte radicamento nel proprio Territorio, secondo
molte autorevoli opinioni, rappresenta per l’impresa una condizione di
estrema importanza, al fine di avere maggiori chance di affermazione sui
mercati internazionali.
Quando si parla di Territorio ci si riferisce lato sensu alla sua Cultura:
le sue tradizioni, la sua storia, il suo folklore, le sue competenze. Le
imprese del Terzo Millennio, dunque, quasi scontando una pena del
contrappasso, sono chiamate – per avere un qualche vantaggio competitivo
sui mercati globali –
a stare ben dentro ai contenuti culturali che contraddistinguono la
propria comunità di origine.
La glocalizzazione, per usare un termine caro a Zygmunt Bauman, condanna le
aziende moderne ad uno sforzo dalla natura duplice e dal carattere sotto
certi aspetti contraddittorio: inevitabilmente tenute a rispondere ai
meccanismi economici propri della Globalizzazione, esse non possono
esonerarsi dal farsi espressione della Cultura del proprio Territorio. La
via italiana all’Industria 4.0, quindi, passa inevitabilmente anche per
una riscoperta ed una valorizzazione dei giacimenti culturali propri
delle realtà locali,
tali da tradursi per le imprese più attente in elementi distintivi ed in
vantaggi competitivi a livello internazionale.
Salta qui agli occhi l’importanza delle opportunità a disposizione delle
nostre aziende: non riteniamo di esagerare dicendo che, a livello mondiale,
probabilmente non esiste un altro Paese che abbia un patrimonio di
ricchezze territoriali tanto prezioso e articolato come il nostro. Volendo
declinare queste considerazioni in iniziative concrete, molto c’è da fare –
ad esempio – riguardo alla gestione ed alla tutela del Folklore,
elemento tradizionalmente oggetto di una disciplina giuridica piuttosto
lasca e frastagliata.
Nel settore appaiono auspicabili, tra l’altro, interventi di carattere
amministrativo e normativo, atti a determinare una standardizzazione ed una
uniformità – a livello nazionale - delle modalità di registrazione ed
archiviazione delle numerosissime manifestazioni delle culture dei
territori, allo scopo di renderle più agevolmente conoscibili e fruibili.
Considerata poi la natura estremamente eterogenea delle espressioni del
Folklore, al fine di metterle in connessione con il mondo delle imprese
sarà necessario ricorrere, non senza una buona dose di creatività
giuridica, a strumenti diversi:
i segni distintivi, le indicazioni geografiche, la sponsorizzazione, il
product placement.
Una terza riflessione concerne la cosiddetta Cultura Umanistica,
della quale l’Italia storicamente è stata la culla e nella quale
tradizionalmente il nostro Paese eccelle. Non bisogna commettere l’errore
di ritenere che le scienze umanistiche facciano ormai parte del passato e
che esse rimangano estranee alle questioni attinenti l’Industria 4.0.
Le tecnologie e le metodologie che si trovano alla base del nuovo paradigma
industriale, infatti, si basano in larga parte sui cosiddetti Big Data, i quali oggi per qualche verso costituiscono la nuova
materia prima dell’industria, un elemento necessario per alimentare le più
moderne dinamiche economiche. I Big Data rappresentano una realtà
nuova, caratterizzata da una complessità e da una vastità dalle dimensioni
inedite, tali – secondo più autori - da mettere in crisi addirittura i
tradizionali processi gnoseologici dell’essere umano (Marino Sinibaldi, Un
millimetro in là. Intervista sulla cultura, Edizioni Laterza, 2014).
L’enormità quantitativa e l’eterogeneità qualitativa delle informazioni
oggi a nostra disposizione, invero, spesso travalicano le nostre stesse
capacità di gestione; una simile “indigestione da dati”, è stato acutamente
scritto, costituisce “
uno degli elementi costitutivi della società contemporanea, che esprime
la capacità di produrre e accumulare enormi quantità di conoscenze,
dando vita a fenomeni di sovrabbondanza tipici delle “patologie del
benessere”, al punto di poter parlare di “information overload
” (Giovanni Solimine, Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia,
Edizioni Laterza, 2014).
E la Cultura, con particolare riferimento alle sue discipline umanistiche,
diventa fondamentale per governare questa difficoltà sconosciuta ed
inesplorata, in quanto “
equilibrio intellettuale, riflessione critica, senso di discernimento,
aborrimento di ogni semplificazione, di ogni manicheismo, di ogni
parzialità
” (Norberto Bobbio, Lettera a Giulio Einaudi, 1968).
Perché vi sono delle “ abilità umane che la macchina non riuscirà mai a riprodurre”: “
la capacità di capire i contesti e le loro unicità, il saper fare
domande spiazzanti e indagatrici, il saper gestire – anzi “abitare” –
l’incertezza e l’ambiguità
” (Andrea Granelli, Cultura digitale per manager, Il Sole 24 Ore, 27 luglio
2016). La Cultura Umanistica, in buona sostanza, oggi risulta
quanto mai attuale, in quanto necessaria – anche -
per consentirci di gestire il fenomeno dei Big Data, elemento
costitutivo e propulsivo dell’Industria 4.0.
Di questo aspetto occorrerà tenere conto, tra l’altro, nel decidere in
merito alla allocazione delle risorse per la ricerca, che non dovrà mai
omettere di dare il giusto spazio alle scienze umanistiche e – facendo un
accenno di più ampio respiro – in genere alla ricerca di base, perché “
senza ricerca libera, “blue sky o “curiosity driven” che dir si voglia,
può esserci miglioramento ma non discovery
” e “
la vera sfida oggi è quella di realizzare l’ossimoro: competenza
disciplinare e collegamento laterale
” (Dario Braga, Il “cielo” della ricerca pura e la creatività per le
imprese, Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2016).
Una quarta questione, che riveste un’importanza strategica e attraversa
trasversalmente tutte le altre, è quella della Cultura Digitale.
Il tema, spesso indicato anche con il termine diDigital Humanities, si sviluppa con una duplicità di contenuti. Da un lato, più banalmente, con questa espressione si intende fare
riferimento all’esigenza che i contenuti culturali propri del nostro Paese
siano riversati – nel modo più rapido e completo possibile - in ambiente
digitale, così da renderli immediatamente utilizzabili anche dalle imprese
nei più diversi modi, compresi quelli riguardanti gli aspetti sopra appena
esaminati. Ma da un altro lato, più ambiziosamente, parlando di
Digital Humanities ci si riferisce ad una attività ancora di frontiera e
davvero molto sfidante: la creazione di contenuti culturali rispondenti a
paradigmi diversi dal consueto, dai tratti pienamente contemporanei, con
caratteristiche largamente inedite, progettati ad hoc per e secondo i
meccanismi del digitale.
Si tratta di andare oltre l’originaria configurazione della cosiddetta
Informatica Umanistica, concepita – in un’ottica meramente funzionale -
come una branca degli studi nella quale i contenuti e i metodi della
cultura umanistica si servono degli strumenti informatici per realizzare i
propri obiettivi.Nel Manifesto delle Digital Humanities si
legge che esse “
designano una “interdisciplina” che include metodi, dispositivi e
prospettive euristiche legate al digitale nel campo delle Scienze umane
e sociali
” (punto I, numero 3).
Le Digital Humanities, nella loro accezione più avanzata, non mirano dunque
alla semplice traduzione di elementi culturali tradizionali per una loro utilizzabilità on line, bensì alla creazione di contenuti nuovi e
ideati appositamente per il mondo digitale, alla luce delle sue peculiari
dinamiche ed in sintonia con le sue tipiche caratteristiche.
Sul fronte delle azioni operative, appare interessante segnalare l’attività
di DiCultHer – Digital Cultural Heritage School: si tratta di una
iniziativa sorta di recente in modo del tutto spontaneo, sulla base di un
mero Accordo di Rete, che ad oggi vede l’aggregazione di oltre cinquanta
organizzazioni - tra università, enti di ricerca, scuole, istituti tecnici
superiori, istituti di cultura, associazioni, imprese pubbliche e private -
con l’obiettivo comune di far nascere un “campus diffuso”, in
grado di attivare l’elaborazione di un’offerta formativa coordinata con il
sistema nazionale, per costruire il complesso delle competenze digitali
indispensabili al confronto - sempre più articolato ed eterogeneo - con la
smart society.
L’esperimento, avviato nella più completa latitanza delle istituzioni
nazionali, allo stato sembra presentare uno sviluppo ancora piuttosto
ondivago e disarmonico,
ma appare certamente andare nella direzione giusta, verso una
diffusione delle Digital Humanities in senso sempre più ampio e
innovativo.
In estrema sintesi, l’Italia non può esimersi dal creare le condizioni per
fare in modo che le proprie imprese stiano nel main stream di Industria 4.0, se non si vuole che il nostro
apparato produttivo si trovi espulso dai meccanismi della odierna
competizione internazionale.
A nostro avviso, tuttavia,
è necessario fare di più e delineare una originale e distintiva via
italiana a Industria 4.0,
tale da garantire una particolare competitività delle nostre aziende ed
opportunità di nuovo sviluppo all’intero Sistema Paese.
E questa via non può che passare per un ripensamento e per una
valorizzazione dell’elemento più tipico e qualificante della nostra
Penisola: la Cultura Italiana.
Il percorso del nostro Paese verso l’Economia del Terzo Millennio, in
estrema sintesi, deve caratterizzarsi per una sua peculiare struttura di
natura dualistica, che veda procedere fianco a fianco ed interagire
vicendevolmente una Industria 4.0 e una Cultura 4.0.
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